Antonio Fuso

Direttore artistico

«Sono approdato a Brescia da Cutrofiano (Lecce), dove sono nato nel 1949, con una borsa di studio della Fondazione Tovini per frequentare l’Università Cattolica. Qui mi sono laureato in pedagogia ed ho conosciuto la mia fortuna e sfortuna, il professor Emo Marconi, del quale sono stato assistente per una decina d’anni. […]. Il teatro, che era nato come passione di studio, è diventato il mestiere vero della mia vita».

Se Antonio Fuso non avesse incontrato Marconi, non avremmo il pensoso regista di un teatro originale e coinvolgente. Iniziò la sua avventura alla Cattolica, con il Centro Universitario Teatrale, detto «Cut La Stanza»», di cui fu fondatore, e giunsero presto i premi internazionali di arte teatrale a Coimbra, in Polonia, in Belgio, in Portogallo. Nel 1986, ha dato vita a Scena Sintetica, un’associazione teatrale che prese in mano il grande lascito spirituale di Marconi.

Una nota di Angelo Rovetta

Intorno ad Antonio Fuso

Antonio Fuso, originale regista, da trent’anni co-protagonista della scena teatrale bresciana, è schivo come il suo Alessandro Magno, questo personaggio desideroso di far perdere le sue tracce nel deserto intorno a Siwa, suo malgrado e in dispregio agli “onori del mondo”.
Le sfide, in questi decenni, sono state sempre ardue: sperimentare mettendo in scena testi e canovacci difficili, perché spirituali, esoterici, filosofici.

Al servizio delle teorie e delle esperienze di comunicazione teatrale e spirituale dei maestri Mario Apollonio e Emo Marconi, il nostro regista Antonio Fuso ha saputo renderle visione, emozione, corpo e azione, trasformando in immagine spaziale, in concretezza musicale e ritmica, in timbro e sangue le spericolate intuizioni oniriche dei maestri.
La “sacralità” della sua esperienza teatrale si fonda sulla costruzione e la tenuta e la durata di una piccola comunità “teatrante”.

Una nobile comunità, perché ha prodotto manifestazioni (teatrali e culturali, di “ricerca”) per la città di Brescia e dintorni del tutto “gratuiti”, in cui i percorsi individuali di crescita, consapevolezza e maturazione psichica, sociale e culturale si intrecciano, mirabili pampini di generosa vite, con gli umori, le varianze, le cangianti evoluzioni – involuzioni della collettività.

Se il personaggio Antonio Fuso si “sottrae” per indole e per scelta culturale, le sue regie procedono anch’esse per “sottrazione”, per purificazione degli elementi ridondanti, rutilanti, per eliminazione dell’esibizionismo carnascialesco proprio della teatralità.
E dire che la dimensione melodrammatica affascina costantemente Antonio Fuso: ne è tentato e anche sedotto, ma poi toglie, tralascia, riduce, impone all’essenziale miracolosa nudità, povertà della scena di manifestarsi, di esserci, di convergere sullo spettatore e di “convertirlo” alle “verità” umane e divine, sempre presenti e sempre implicite nella scena stessa.
È questo il cammino ascetico del “vero regista” e del “bravo attore”.

Una mèta, la contemplazione estetica dell’essenza, cui pochi attori e registi giungono, ma che lo spettatore coglie incantato, commosso, turbato, elevato; così, dopo lo spettacolo, si tace e la voce è un mormorio ammirato.
Un gruppo di attori, una comunità teatrale diventa tale proprio nel percepire la scena come dono che si offre al pubblico. Per questo l’oracolo è emblematico e ogni gesto e voce e suono e luminosità e ombra della scena sono possibili significati profetici -“oracoli”- donati a chi si pone, con la sua stessa presenza, come domanda: “dimmi, al fine, chi sono, chi posso essere”.