Quale poetica teatrale, oggi?

Dopo il «dionisiaco» e l’«apollineo»; dopo la mimesis e la katarsi di Aristotele (molto volte sdegnate nei secoli, ma mai abbandonate); dopo l’emozionalità barocca e quella romantica (melodramma); dopo lo schema comportamentistico della Commedia all’Improvviso; dopo l’intellettualismo di Pirandello e di Brecht, quale poetica teatrale oggi?

E intanto tutti: programmatori, registi… attori, si dilettano a ripetersi… e a ripetere repertori senza sosta… sino all’estenuazione, e alla consunzione, di anno in anno, di tutto il danaro pubblico disponibile.
Le avanguardie hanno chiuso le loro valve sperimentali, non sulla perla della poesia, ma sul vuoto delle semiologie pettegole ed inutili. (Perché non abbiamo il coraggio di dire che il «doppio» di Artaud è semplicemente una citazione dell’eterico degli Induisti e dei Maghi Atzechi: qualcosa che oggi è possibile a molti di verificare ad occhi aperti?

Accettiamo, via, le «visioni» ormai quotidiane del vero, o presunto, al di là!). Ogni dramma (ed azione comica) tra uomini, o tra uomini ed oggetti, ha delle cause storiche (evviva i drammi che scandagliano l’ineluttabilità e la ferocia del potere) e delle cause interiori (evviva il teatro ispirato alla psicanalisi); ma anche altre cause, solo apparentemente «invisibili» (cosmiche… spirituali? Che importano le parole…).
Ebbene, è questa dichiarata «invisibilità» (presentata come assenza) che vogliamo rendere sulla scena come presenza; senza l’ispirazione e l’aiuto di una chiesa, di una fede, di una ideologia. Perché quelle cause sono oltre il mondo dei sensi: sono nell’universo sondabile della verità.
Sono, infatti, contemporaneamente dentro e fuoril’immaginazione: vere come i ricordi, le magìe, le realtà di cui sono impastate tutte le cose visibili ed invisibili: dai Devas.

Lungo la linea di una nuova Gnosis? (Non si tratta di termini, ma di vissuto esistenziale, provato e riprovato nella coscienza, e non soltanto nella storia).
Si tratta di scoprire e rappresentare le relazioni che mettono ogni individuo vivente ed ogni oggetto esistente in rapporto con un mondo più vasto di quello che i nostri comportamenti esperimentano ed individuano (nella vita quotidiana e sulla scena di tutti i teatri del mondo).
L’uomo vive oggi, infatti, in questo strato di penombra opalescente, in questa area di fede e miscredenza insieme, in questo spessore di ragione e di mistero. Qui, e solo qui, egli è contemporaneo a se stesso; qui non si ripete; qui è essenza di cose create e tuttavia ancora «fattibili», e, quindi, rappresentabili. Dentro questo schema di umanità e di libertà, è possibile rappresentare molto teatro di ieri, ma soprattutto quello di domani.

Appena gli individui si porranno dentro la liturgia del “gruppo” e nella luce di un lampo creativo che è rischio ma anche certezza. L’unica? Basta con la falsa retorica, con la pseudo-cultura (così alimentata da contesti) dei teatranti che ci circondano: così rigoristi, così formalisti, così prepotenti e così incapaci di camminare sul filo teso dalla ragione della vita. Perché poi vi è, come tutti sanno, anche una cultura della morte. Ma nemmeno questa appartiene loro. Non hanno nemmeno più tempo per camminare sugli asfodeli. Sono seduti e intenti a giocarsi la tunica di Cristo. (E nel frattempo magari si sentono molto impegnati a contare i peli della barba di Marx).

A teatro… a teatro… E noi ad assistere a scene… scene… scene: documenti di infantilità!· Se l’uomo è maturo per rifare in laboratorio se stesso, se è maturo per devolvere alle macchine molte delle sue facoltà; se ormai sembra conoscere tutte le dimensioni della materia, ebbene egli allora è anche idoneo a chiamare (doverosamente) al rito scenico (per glorificare ed esplicitare le ragioni nascoste di quelle ricerche e di quelle conquiste) coloro che, non tanto (o soltanto) vogliono divertirsi, stordirsi, quanto «pensare» sulla dinamica del loro essere coscienza, meglio: auto-coscienza.
Rito significa costruire un «locus» ed una «azione» per cui un gruppo umano può (non importa se solo per un istante) identificarsi con un dio. Oggi per il domani. Quando l’identificazione è drammaturgica succede sovente che le creature più «formate» di Dionisos (Clitemnestra, Fedra, Elettra, Amleto, Chimène, Macbeth… La figliastra… Il padre… Arpagone ecc.) rispondano alle domande angosciate (o divertite) degli spettatori. Per rendere possibile questa risposta al gruppo (risposta ormai impossibile, a quel che pare, alla religione) il teatro è nato…
Per questa sua traslucida funzione, esso è immortale; per questo lo si dice «liberatorio». Ora quelle creature, inventate e cresciute nell’area del Dio della Tracia, non rispondono più.
(Se lo facessero tutto il teatro sarebbe soltanto classico).

Sono mute… Può darsi che le loro parole non servano più… comunque si odono con molta… molta fatica. Ecco perché Scena Sintetica ha deciso di «rappresentare» il NUOVO di cui si è detto: dentro e fuori il contesto della nostra cultura; di rappresentare la vita delle forze nascoste che sempre (diciamo: sempre) agiscono dentro ed intorno a tutte le cose.

Sarà così possibile estrarre, dall’effimero della scena, delle «risposte» impreviste, efficaci, utili e rivelatrici. Per chi opera: esperienza ed ideale… lavoro e silenzio!· Altri (molti) sono morti sulla scena, recitando. I componenti di «Scena Sintetica», sul palcoscenico di un «teatro nuovo», recitano per non morire.

Brescia, 10 Settembre 1987