Maura Benvenuti

Attrice

Dopo alcune piccole esperienze, nel 1983 approda al Cut “La Stanza”. Da allora la sua adesione convinta al progetto iniziale di ricerca e prassi del coro, dettato prima da Mario Apollonio (1901-1971) e poi da Emo Marconi (1917-1997), non è più mancata.
Nel 1986 con Antonio Fuso, Giorgio Guerra e Giovanni Marconi fonda Scena Sintetica e nel 1990 sempre con loro e con Paolo Djago e Domenica Lorini, lavora per ben due anni alla “messa in scena” del nuovo spazio di San Desiderio, tuttora sede legale e operativa del gruppo.
In questi tre decenni ha partecipato, in qualità di attrice o di “custode”, a tutte le numerose e considerevoli iniziative teatrali, culturali, scientifiche e artistiche, che Scena Sintetica ha ideato e prodotto.
Spettacoli come Voyage, Empedocle, Studio per l’Antigone, Studio per l’Orlando, ora Alessandro a Siwa (tutti per la regia di Antonio Fuso) hanno segnato profondamente la sua carriera artistica, ma anche la storia generale di ricerca teatrale. A questi imprescindibili spettacoli sono da aggiungere progetti complessi come “Trasformazioni, Trasmutazioni, Trasfigurazioni” (1998) e quelli sul tema della “Luce”(1991) e del “Suono” (2008), temi indicati da Emo Marconi.
Dal 2003 dirige la Scuola biennale dell’Attore intitolata a Emo Marconi.
Il 9 maggio 2014 il “Gruppo Promozione Donna” di Brescia ha consegnato il premio “Città di Brescia – Laura Bianchini” alla memoria di Maura Benvenuti.

Marzo 2014

È morta Maura Benvenuti. Anche a scriverlo, non ci si crede.

“Ci vuole pazienza, esperienza e fatica per i giochi del cielo irresponsabile”.
Solo qualche ora fa, assistendo dal fondo di San Desiderio all’ultimo spettacolo di Scena Sintetica, l’Associazione delle quale era cofondatrice, ripeteva compiaciuta qualche verso appena udito, valorizzando l’attore, sorvolando sulle incertezze di dizione nella quale materia era maestra (da qualche anno dirigeva la scuola dell’attore “Emo Marconi”).

Chi era Maura Benvenuti è presto detto: la più raffinata, colta, grande attrice tragica che io abbia mai conosciuto. Ho detto tragica, cioè una di quelle rare attrici il cui gesto è così ultimativo da sintetizzare e redimere tutti i gesti e gli addii sostitutivi e la cui voce metteva i brividi in corpo, carica com’era di tutti gli armonici di tutte le grandi che l’avevano preceduta. Chiedete a un qualunque maestro di musica.

Dopo varie esperienze maturate in compagnie e formazioni teatrali occasionali, si era formata professionalmente nel Centro Universitario Teatrale sotto la guida del Professor Marconi e di Antonio Fuso partecipando a tutti gli spettacoli prodotti in San Carlino, allora sede operativa del Centro.

Aveva poi fondato, nel 1986, Scena Sintetica insieme ad Antonio Fuso, a Giorgio Guerra, e Guido Uberti, mettendo mano al restauro di San Desiderio, impresa per la quale si era spesa in maniera totale, diventando custode vigile e officiante solenne di quel piccolo spazio nel quale periodicamente, perdendosi nella impersonalità del Coro, rappresentava da protagonista scene originali ed inedite, alimentando la poetica del gruppo che era ed è fatta di luce, di suono di colore e di rito…

Che dire? Proprio ieri sera ragionando sul futuro che l’avrebbe vista impegnata nel Museo Diocesano il 24 in un Pianto della Madonna di Jacopone, mentre si metteva in ordine San Desiderio dopo la partenza degli ospiti, operazione che faceva personalmente definendolo un privilegio, si parlava dell’anniversario di Eleonora Duse (il 90° della morte, 21 aprile) e si progettava di dare pubblica lettura di un piccolo recit, che avevo scritto per lei, sapendo della sua venerazione per la grande attrice. In quel raccontino teatrale c’è una frase che l’aveva particolarmente colpita laddove, sul letto di morte, a Pittsburg, “…Eleonora, piccola e fragile come uno scricciolo, avvolta nel sudario delle nebbie angiportuali, agitò le mani, quelle mani, le protese in avanti quasi volesse scostare un sipario e nel vuoto illusorio, colpita da un raggio verticale, mosse le labbra tremanti imperlate di sudore freddo e come ripetendo le parole di un copione, con quella voce sublime, bisbigliò con dolcezza: chi mi parla di teatro, mi uccide!”
Chi poteva pronunciare quelle parole se non lei?

Se potessi o dovessi accennare al rapporto umano che si era stabilito tra noi fatto di affetto profondo, complicità, armonia, io che mi sento mutilato e orfano, semplicemente lo direi in forma di abbraccio epigrammatico:

Ogni giorno,
tutto,
dai capelli ai piedi
come un’attrice tragica
un dramma di Shakespeare in provincia,
mi portavi con te,
mi imparavi a memoria,
e di tanto in tanto,
mi ripassavi…
Ora
Richiudi per me
l’uscio della sera,
madre;
spalanca le porte
del mattino,
sorella, amica.

Antonio Fuso